Lotte e composizione di classe 2013

Premessa

Questo  materiale è stato  prodotto  nel  contesto del  lavoro  d’inchiesta  e analisi  che, in  quanto  militanti comunisti prigionieri, cerchiamo di continuare a sviluppare.
              
E’ il secondo contributo, dopo quello concluso in aprile 2011.
               
Lo facciamo avvalendoci anche dell’esperienza di vita lavorativa e di  presenza militante nella classe; ed in continuità, dall’interno del passaggio carcerario, della nostra militanza rivoluzionaria. Lo  concepiamo  come contributo, come partecipazione  a  quel  lavoro  di inchiesta e conoscenza che, da sempre, alimenta le realtà militanti della classe.  
   
Proponendolo  perciò  nei  suoi  evidenti  limiti,  di  ristrettezza nelle fonti  di informazione  e nelle occasioni di riflessione e confronto.
   
Materiale  grezzo  quindi, finalizzato al confronto e aperto alle integrazioni.   I temi di approfondimento possono essere tanti. Ne accenniamo solo alcuni: forme e organizza organizzazione del conflitto, in rapporto alle forme dei cicli produttivi e della composizione di classe.
 
 Soggetti in campo: linee di contraddizione e ricomposizione.
 Piattaforme e ragioni delle lotte, tendenze all’autonomia di classe.
                                        

  Lavoro concluso in febbraio 2013
  Carcere di Siano (CZ)


        2 militanti per il  PCP – M  (Partito Comunista Politico – Militare)
          (vecchie talpe operaie)









PRIMO MAGGIO 2013
LOTTE E COMPOSIZIONE DI CLASSE 2012

FABBRICA E TERRITORIO: IL MODO DI PRODUZIONE E’ SEMPRE CENTRALE.

La grande fabbrica ha perso molto della sua forza, della sua capacità di polarizzazione del conflitto di classe. Innanzitutto per il suo drastico ridimensionamento di siti e di occupati, e poi per quel generale arretramento nei rapporti di forza fra le classi, per lo stillicidio precarizzante portato dalla crisi. Basti pensare all’aspetto spettrale di quella che fu la simbolica avanguardia operaia, la FIAT Mirafiori.
Ciò nonostante, assistiamo ad una puntuale rivitalizzazione del ruolo della grande fabbrica, nell’esasperante sommarsi delle contraddizioni sociali acuite dalla crisi. La contraddizione Capitale/Lavoro attraversa e si sovrappone ad altre coinvolgenti il sociale nel suo insieme. E’ il caso eclatante dell’ ILVA di Taranto. Caso scoppiato dopo anni di degradazione delle condizioni complessive, di lavoro e di vita, in fabbrica e sul territorio; degradazione alimentata dalla feroce spirale concorrenziale di questa fase. E’ scoppiato in modo tale da porre tutto il nodo di contraddizioni che ruotano attorno questo tipo di produzioni , centrali sia per il capitalismo che per qualsiasi altro modello economico e sociale: modo di produzione, lavoro e salute, vita e morte, ambiente.
Prendendo proporzioni di interesse nazionale data l’importanza, a monte, di questo stabilimento non solo per la siderurgia ma per tutta l’industria. Storicamente la questione della nocività industriale capitalistica è sempre stata di difficile approccio, prestandosi in pieno al potere ricattatorio del Capitale. Infatti è stato solo nei periodi di più grande forza operaia che questa è riuscita ad aggredire la questione, a conquistare dei miglioramenti. Con il grande ciclo di lotte a Porto Marghera ed in altri petrolchimici, con la battaglia attorno a Seveso e ad altre vicende di inquinamenti devastanti. Mentre nelle fasi normali ha sempre prevalso la cosidetta “monetizzazione”, tramite cui sindacati e partiti riformisti svendevano vita e salute operaie e rinsaldando il loro ruolo negoziale.
E’ così, per esempio, che all’ ILVA incassano sostanziosi finanziamenti da padron Riva, per attività sindacali e dopolavoristiche, in cambio, fra l’altro, di accordi come quello del 2007 sul “raffreddamento interno dei problemi di sicurezza e infortunistica”. Cioè del vincolo a non portare la problematica fuori dalla fabbrica…… a stare zitti! Oppure prendeva piede la critica ecologista, esterna alle fabbriche, di stampo piccolo-borghese, tendente a divaricare i due interessi  - quello operaio e quello da “cittadini”-  nella sua impostazione riformistica , che non osa certo mettere in discussione il Modo di Produzione (l’unica vera questione). Ci furono così incresciosi episodi di contrapposizione frontale, come alla  Farmoplant di Massa-Carrara, negli anni novanta.
Nel contesto attuale, invece, il convergere di tante e diverse tensioni, lo svelarsi della crisi come crisi sistemica, sta producendo una situazione inedita, suscettibile di possibili evoluzioni molto interessanti. E’ ciò che si è prodotto con la messa in movimento di tutti gli operai e della città; e con l’emergere dell’area critica anticapitalistica, fra cui il significativo Comitato Operai e Cittadini Liberi e Pensanti, quelli dell’ Apecar. Questi sono riusciti ad aggregare operai e popolazione, incuneando questa unità fra le suddette posizioni e quelle padronali-istituzionali, tendenti a dividere e corporativizzare i vari settori. L’immagine della loro irruzione, nel bel mezzo del rituale sindacale di piazza, ha marcato un indubbio salto in avanti. Indirizzando la lotta contro il nemico principale: i padroni.
Possiamo anche intuire i limiti di questa aggregazione, ma che, in fin dei conti, sono i limiti di tutto il movimento di classe, e da lungo tempo. E la critica anticapitalistica sempre si infrangerà entro le barriere istituzionali, protettive e recuperatrici, finchè l’avanguardia non riuscirà a ricomporsi su una strategia e prassi adeguate. “Ma questo è un altro discorso”.
All’interno della mobilitazione, dentro e attorno all’ ILVA, in questi mesi, un episodio marcante è stato quello della risposta operaia all’ennesimo “omicidio bianco”, quando un giovane addetto ai trasporti ferroviari interni è rimasto schiacciato, e senza soccorsi per lungo tempo. Scoppiò uno sciopero selvaggio del reparto, protratto per alcuni giorni, guidato da un gruppo di operai in modo autonomo, infuriati contro le precise responsabilità-complicità sindacali nel peggioramento delle condizioni lavorative e pure nei tagli sulle misure di sicurezza.
Sicuramente ciò che appesantisce la condizione operaia, e ne inibisce la capacità-possibilità di risposta, è la vorticosa spirale di mondializzazione e crisi. Per cui appare lo spettro della completa dismissione del settore siderurgico in Italia.
Settore che è già stato drasticamente ridimensionato  - oggi contando 36.000 addetti, e fino a 60.000 con l’indotto -  e rimanendo pertanto il secondo produttore in Europa (dopo la Germania).
Lo stesso discorso vale, fra gli altri, per la cantieristica navale. Sempre appesa al filo di piani di ristrutturazione a dimensione mondiale. E’ anch’esso settore operaio centrale, con storia di lotta e organizzazione, che continua a ravvivarsi in tornate successive. Nel precedente opuscolo ne parlammo parecchio, essendo stato il 2011 anno di forti tensioni attorno alla tentata delocalizzazione di 3 cantieri (sui 9 di Fincantieri). Mentre quest’anno possiamo almeno registrare un relativo (e sempre precario) successo della resistenza. In gennaio è stata letteralmente festeggiata dalla città di Ancona la conquista, dopo tanti mesi di lotta, del mantenimento del sito. Mesi molto partecipati e determinati, per cui questo passaggio è percepito davvero come una vittoria. Mentre rispetto ai cantieri di Sestri (Genova) e Castellamare di Stabia (Napoli) si può parlare piuttosto di “tregua armata”. Proprio il forte legame con il territorio, con le città, particolarmente per questi cantieri storici (risalenti all’ Ottocento) esalta ancor più quel nodo di contraddizioni che porta con sé il movimento del Capitale nella crisi, e che riporta in superficie le questioni essenziali del Modo di Produzione e del potere sulle condizioni di vita.
Questioni che prendono un carattere drammatico in alcune regioni. In Sardegna e in Sicilia la deindustrializzazione porta diritto alla miseria nera, un salario essendo sovente la principale fonte di reddito per una famiglia allargata.
In Sardegna la resistenza si è molto intensificata lungo il corso dell’anno, e radicalizzata nelle forme di lotta, con tante occupazioni, incursioni in palazzi e sedi istituzionali, blocchi stradali e ferroviari. E molti confronti con le forze repressive. Fino ad alcuni episodi molto gravi, come il sequestro dei pastori sbarcati a Civitavecchia (per protestare a Roma) e il loro respingimento. Mentre il fatto più interessante è, probabilmente, la nascita di una “Consulta Rivoluzionaria Sarda”, durante i momenti più forti delle mobilitazioni del Carbosulcis e dell’ ALCOA. Consulta che vuole federare le diverse lotte: operai, pastori, artigiani, No-Equitalia e No-Debito. Una spinta di base autentica e che, in quanto tale, rifiuta i patrocini partito-istituzionali. Certo, è solo un inizio e le intenzioni da sole non bastano, però anche il riferimento “rivoluzionario” significherà qualcosa…..  Diciamo che si approfondisce il distacco da istituzioni politiche ed economiche, sempre più percepite come la causa dei problemi. E, nel caso delle due isole, questa consapevolezza è rinforzata dalla storica insofferenza al rapporto di annessione di tipo “coloniale”.
In Sicilia si è data convergenza tra alcuni focolai di lotta molto vivi. Innanzitutto il fenomeno dei “Forconi”, tipica espressione di quei settori di piccola borghesia produttiva -autotrasportatori, contadini, pescatori- che puntualmente si ritrovano schiacciati da grande Capitale e Stato, nella spirale della crisi, nella morsa fra concorrenza e fiscalità. (1)
Una dinamica che sappiamo essere stata all’origine anche della Lega Nord e di vari movimenti populisti in Europa. Infatti i “Forconi” non sono indenni da infiltrazioni e manipolazioni politico-istituzionali (basta vedere alcuni dei leader affermatisi), però bisogna guardare alla sostanza di una mobilitazione popolare che nasce contro la crisi e il grande Capitale. I gruppi militanti sull’isola giustamente mettono in avanti questo carattere basilare ed autentico, che si manifesta nella radicalità della lotta, nell’organizzazione alla base, nel rifiuto della delega e a farsi trascinare nelle illusioni elettorali. Sottolineano che c’è una vera spinta di massa, di protagonismo collettivo, di volontà a battersi contro le condizioni attuali e soggezioni antiche. Il dato principale poi è il concretizzarsi di tutto ciò che nella forma di lotta radicale del blocco di crocevia importanti, depositi di carburante, raffinerie, ecc. . Cioè il tentativo di  blocco dell’economia nel suo insieme, tramite l’azione diffusa sul territorio e sui flussi economici. A gennaio, e poi in primavera, c’è stato il tentativo di riprovarci ma per ora il movimento ha perso slancio e compatezza.
Purtroppo lo scontro per linee interne è cominciato e un movimento di questo tipo è attraversato da tensioni contradditorie. E alcune, ce lo insegna la storia, puntano a soluzioni corporative e identitarie, offrendosi a massa di manovra per tendenze fascistizzanti (la presenza di Forza Nuova, per esempio).
Mentre le tensioni più genuine ritrovano le loro matrici anticapitalistiche e antistatuali. In questo senso hanno portato il loro valido sostegno gli studenti, la cui presenza organizzata ha connotato fortemente alcune giornate, rafforzando queste giuste tendenze. In particolare con le parole d’ordine contro la crisi, il governo dei banchieri e le politiche di demolizione sociale. I blocchi a raffinerie e petrolchimici han finito per indurre significative partecipazioni operaie, come a Gela e Priolo, con una prolungata fermata della produzione; o come la presenza dei Cantieri Navali, sia l’importante nucleo operaio di Palermo, sia quello piccolo ma combattivo di Trapani. Quest’ultimo è da mesi impegnato in una dura lotta contro i licenziamenti, fino all’occupazione del porto, sgomberato con uno sproporzionato dispiegamento poliziesco; occupazione che aveva fatto risaltare un bel livello di autorganizzazione e rete solidale.
In tutta l’isola, infine, i blocchi furono rimossi con gran dispiegamento di truppa e di politicanti. Stoppando un’estensione ed un’intensità di lotta che, come si ricorderà, provocò per un paio di giorni la fermata delle fabbriche FIAT e intralci sui traffici stradali e di merci in varie regioni. Culmine di quella stagione fu la manifestazione del 25 gennaio a Palermo, con circa 10.000 partecipanti, e la contemporanea discesa a Roma dei pescatori che, sotto Montecitorio, si affrontarono violentemente alla polizia (con feriti e arresti). Altri arresti ci furono in Sicilia, soprattutto di camionisti. Anche questa manifestazione confermò la saldatura con le citate tendenze di classe, con la forte presenza operaia e studentesca…. benchè, in coabitazione con Forza Nuova! Ulteriore fiammata si ha a marzo, con assedi sotto la Regione, sempre in migliaia, e ancora una volta l’arrivo di una delegazione molto significativa: quella dei NO-TAV della Val Susa. E poi, naturalmente, gli operai GESIP.
Anche lungo tutto il 2012 essi hanno punteggiato le cronache palermitane con frequenti irruzioni. C’è da considerare il carattere di questa azienda che lavora per gli Enti Locali, raccoglie molti ex- detenuti e, per la sua precarietà, richiama la realtà delle cooperative. Infatti la loro lotta è ai bordi della sopravvivenza, contro i tagli al lavoro e il non versamento dei salari; resistenza al di là della quale, per molti si questi proletari, si riapre la condizione di marginalità extralegale.
Ciò che viene fatto loro pesare pure negli interventi repressivi, riportando in carcere alcune loro avanguardie e usando come aggravante i loro precedenti penali. Nel rapporto di unità e solidarietà con studenti e Centri Sociali, li ritroviamo persino in testa a qualche manifestazione di giovani. E in testa alla grande scadenza europea del 14 novembre. Scadenza che, ancora una volta, ha visto questa originale raccolta di forze sociali di Palermo fra le più combattive d’Italia.
Già solo numericamente sono sempre fra le manifestazioni più consistenti, e spesso teatro degli scontri e delle azioni più risolute.


(1) Ricordiamo che in Italia vi sono 120.000 aziende di trasporto merci, di cui 95.000 possiedono non più di 5 veicoli. Sono appunto questi piccoli proprietari l’ossatura della piccola borghesia produttiva, la cui principale rivendicazione riguarda i prezzi del gasolio e la fiscalità. Mentre agricoltori e pescatori, di piccole dimensioni, si ritrovano schiacciati dalle politiche di concentrazione orchestrate dalla U.E.  Per esempio, con l’uso selettivo di finanziamenti e quote di produzione.
Qui si può aprire un’altra considerazione su un fronte che si va allargando in tutto il Paese, quello della casa. Sta diventando molto interessante, e per vari motivi.
Intanto perché il settore immobiliare è al centro della crisi, ne è stato addirittura il detonatore. Ragion per cui si è propagata un’ondata di espulsioni, requisizioni da indebitamento, sfratti, che per altro continua ad allargarsi. La questione abitativa è sempre stata all’incrocio dei vari aspetti della condizione sociale, per cui puntualmente riesplode.
Nei cicli alti di lotta di classe vi furono ondate di occupazioni organizzate e la pressione di classe si concretizzò nella discesa degli affitti, in valore assoluto e relativo rispetto ai salari. Al punto che gli affitti delle case IACP erano diventati simbolici, specie di prezzi politici. La risposta del potere fu velenosa: si spinsero ampi settori popolari alla piccola proprietà. Agli inizi svendendo il patrimonio IACP a prezzi irrisori (non di mercato), proprio per irretire, favorire l’avvio di questa politica (anti) sociale.
Infatti, mentre la pratica dell’ “affitto politico” manteneva vivo il rapporto di estraneità e conflitto con la proprietà, favorendo l’organizzazione di base, la solidarietà e la socializzazione nei quartieri, la piccola proprietà porta al contrario ad attitudini di chiusura individualistica, alla disgregazione dei rapporti solidali, al ragionamento commerciale, ecc.
In seguito si è diffuso il fenomeno dei mutui d’acquisto, ad aggravare queste tendenze, trascinate peraltro nella grande ondata neo-liberista, con i vari fenomeni di regresso e atomizzazione sociale. Cioè tentativi di realizzazione degli ideali programmatici, dei “sogni” della borghesia: nella voce di uno dei capifila del neoliberismo, Milton Friedman, e della sua allieva, Margareth Thatcher, “realizzare una società di proprietari”, supportata dal “non esiste la società, esiste il mercato!”. E poi, come si dice fra proletari, comprare casa con un mutuo è come mettersi un cappio al collo. Infatti, se prima il suo riflesso era un pesante condizionamento ad evitare rischi collettivi (scioperi, licenziamenti, ecc.), ora ci ha pensato direttamente il Capitale a tirare il cappio! Confermando quanto sia illusorio, e imprigionante, il “sogno” piccolo-borghese, mentre solo la lotta collettiva può affrontare quest’eterno aspetto della miseria proletaria.
Già nel testo precedente demmo spazio alle esperienze di autorganizzazione che si vanno diffondendo dagli USA a fianco degli OWS (Occupy Wall Steet) alla Spagna, dall’Europa all’America Latina. Le caratteristiche di queste esperienze sono, ovunque, un po’ le stesse. Quelle in corso a Torino sono particolarmente chiare: diretta conseguenza del più alto numero di sfratti, relativamente alla popolazione, nonché all’acuirsi eccezionale delle nuove povertà. Occupazioni già ne esistevano, ma la forma che ha iniziato a diffondersi sono i picchetti volanti di quartiere contro l’esecuzione degli sfratti. Pratica che fa crescere i rapporti solidali, anche solo di frequentazione, nei caseggiati. Consideriamo che nelle situazioni di maggior degrado sociale, da crisi -come in certe metropoli USA, Spagna, Grecia, Latino America-  queste reti popolari diventano anche forme di mutuo soccorso, per risolvere insieme i problemi di sussistenza (mensa comune, asili nido, ecc.). E che la resistenza, così, acquista nuova forza e slancio, passando ad occupazioni più audaci, a forme di lotta più radicali. Così a Torino le occupazioni hanno investito edifici di proprietà privata (ancor più efficace quando si tratta di banche e assicurazioni) e proprio nel bel mezzo di quartieri in lotta.
Questo dà un maggior impatto, rendendo evidente la contraddizione di classe attorno alla casa, e direttamente col Capitale Finanziario. Contraddizione che ha raggiunto un livello di massificazione notevole in Spagna, dove grandi manifestazioni sono andate ad attaccare banche ed altre istituzioni proprietarie. E l’aggregazione in quartiere può raccogliere e sviluppare varie altre questioni sociali: scuola, sanità prezzi e debiti, immigrazione e repressione. In una spirale virtuosa che permette un reciproco rafforzamento. Infatti a Torino ha giocato il suo ruolo l’interazione con il NO-TAV, contribuendo fra l’altro allo sviluppo di una resistenza efficace e di massa alla truppa inviata ad eseguire sfratti.

                 
FRONTE LOGISTICO

Si conferma come uno dei più vivaci. Anzi, uno degli elementi nuovi nella configurazione e nelle espressioni di classe. Innanzitutto un diretto riflesso delle trasformazioni nell’organizzazione dei cicli produttivi e commerciali, che si possono riassumere nella dispersione territoriale dei cicli e nella frantumazione delle unità di produzione. Ciò che avviene sia internamente al Paese, sia con la delocalizzazione mondiale. Il tutto non più come decenni fa, in cui ogni localizzazione in altre regioni o continenti corrispondeva ad una relativa indipendenza di ciclo organico. Oggi tutto è connesso nelle vaste reti informatizzate, vero e proprio sistema nervoso di un’organizzazione dislocata e dinamica, alla continua ricerca di siti ottimali. I confini si sono completamente dilatati, e i risultati si ottengono nel saper connettere i diversi segmenti entro un ciclo che opera in “flusso teso”, in “just in time” (tempo reale).
In questa nuova configurazione, che tempo fa fu anche definita “fabbrica diffusa”, ed anche a causa dell’aumentata incidenza della sfera commerciale, si è accresciuto considerevolmente il peso specifico del segmento logistico.
20% sul costo di prodotto: questo è mediamente il suo peso, nella media dei settori produttivi, in Europa. Esso si definisce in specifiche funzioni: trasporti, deposito, stockaggio e movimentazione merci. Funzioni che spesso sono state, in questi decenni di ristrutturazioni, e tuttora , esternalizzate dalle imprese. Per cui sono cresciute le cosidette piattaforme logistiche, snodi di raccolta e trattamento per la spedizione delle merci al circuito commerciale. Piattaforme situate spesso nel perimetro di zone industriali e logistiche, appunto.
Ecco perciò il formarsi di concentrazioni di nuovo proletariato. Che si caratterizza innanzitutto per essere il risultato dei processi di esternalizzazione/appalto. Cioè delle strategie di sistematica riduzione-compressione dei costi salariali.

Così si è affermato il sistema dei sub-appalti alle cooperative e la relativa figura operaia super-sfruttata, precaria, principalmente immigrata. E, a dimostrazione che qualsiasi ciclo di ristrutturazioni, innovazioni tecnologiche e riorganizzazione del lavoro, produce nuove condizioni per il conflitto di classe, in questo caso vediamo che sono state create concentrazioni proletarie di nuovo tipo, a valle del processo produttivo e a monte della sfera di commercializzazione. Casi esemplari: la piattaforma in periferia di Reggio Emilia, con la sola SNATT, grosso gruppo logistico che appalta alla Coop. GFE il lavoro di circa 500 operai; o il recente ed eclatante caso dell’ IKEA a Piacenza, con circa altrettanti dipendenti, fra diretti e in appalto.
In ambedue i casi la lotta è partita contro le forme più brutali di sfruttamento  - non applicazione del Contratto nazionale di categoria, salari più bassi del minimo sindacale (fra i 4 / 6 € l’ora), orari arbitrari, pagamenti in nero con decurtazioni varie, dispotismo da caporali, ecc. – per poi radicalizzarsi di fronte all’ormai consolidata tattica padronale di rappresaglia e azzeramento delle conquiste, ricorrendo al gioco di scatole cinesi con coop, più o meno fasulle, per licenziare in massa e riassumere in base ai vecchi salari. Magari ricorrendo al rimpiazzo in blocco con operai di altre etnie. Ma infine questo cinico uso della concorrenzialità  fra masse di precari trova il suo “contrappasso” nel massificarsi della rivolta. Perché di rivolta si tratta, vista la cappa terroristico-repressiva  che si deve far saltare: dal comando ricattatorio, vessatorio, sul lavoro, al pronto intervento sbirresco e squadristico contro gli scioperi.
Va infatti rilevato il frequente ricorso padronale ad aggressioni ed attentati, di stampo squadristico, agli operai più attivi, alle avanguardie. Sicchè, quando un gruppo operaio riesce a far partire la lotta, questa fa presa rapidamente, si massifica, invalidando l’efficacia del sistema di ricatto e repressione. Per le caratteristiche sociali di questa sezione di classe operaia, per questa sua capacità di lotta ed autorganizzazione, espansiva al punto che sta diventando un’ “avanguardia di massa”, possiamo dire di trovarci in presenza di una forma di “operaio-massa”. Non la riedizione di quello che fu, ben più parziale e ridotta, certo, però le sue caratteristiche son quelle e proprio per queste si assiste alla riproduzione, diffusione del suo modello conflittuale nella vasta rete della fabbrica diffusa, appunto.
Per esempio, la lotta esemplare a Basiano (piattaforma del gruppo “Gigante” nel milanese) nasce proprio per impulso di un’altra, quella dell’ “Esselunga” di Pioltello (sempre nel milanese) e dai legami comunitari fra operai che vivono negli stessi quartieri. A Pioltello la lotta culminò in una settimana di picchettaggio duro, a dicembre 2011, e con una super-manifestazione solidale con un migliaio di partecipanti, a Milano. E con la vittoria su varie rivendicazioni e sul ritiro dei 22 licenziamenti di rappresaglia. Contemporaneamente il gruppo operaio che ha condotto la lotta, vincente, contro la TNT di Piacenza (luglio 2011) apre la prima sede SI-Cobas gestita da operai immigrati. Altro segno significativo dell’emergere di questa sezione di classe.
Ma la radicalità è anche (sempre) nei contenuti: a Basiano si lotta per il “A lavoro uguale - salario uguale!”. Gli operai che guadagnano il doppio degli altri ( 8,50 € l’ora, contro 4,50 ), per lo stesso lavoro, si uniscono alla loro lotta contro tali soprusi e divisioni mantenute da cooperative artificiose.Esempio magnifico di solidarietà e di costruzione dell’unità nella lotta. I padroni rispondono con licenziamenti di rappresaglia, allora lo sciopero diventa ancor più compatto. Arrivano i carabinieri per far entrare autobus carichi di “crumiri”, ed è lì che avvengono gli scontri più violenti ai cancelli ed i 20 arresti. Questo segna un altro salto di qualità, perché è chiaro che l’arresto di scioperanti è un fatto molto grave. Tant’è che la vicenda diventa clamorosa, catalizza mobilitazione e solidarietà; prende le proporzioni emblematiche di Rosarno e Castel Volturno.
Un paragone interessante: all’ “Esselunga” di Pioltello, su una concentrazione di 700 facchini, la lotta è stata di minoranza, seppur consistente, ed ha fatto fronte a licenziamenti delle sue avanguardie. A Basiano invece abbiamo 85 licenziati e 15 sospesi, su 130 facchini; la lotta era di tutti ed era la risposta operaia a questo metodo consolidato di successione di cooperative, di divisione concorrenziale, attuato sia per il maggior sfruttamento che per poter liquidare i gruppi operai combattivi. Un altro passo avanti!

Ormai ci si pone il problema di come sviluppare queste esperienze militanti in rapporto alla crescente disponibilità alla lotta nel settore. Un passaggio evidente è quello del coordinarsi fra i diversi siti dove operano le stesse cooperative e gli stessi committenti: inceppare e stravolgere il loro sporco gioco di concorrenzialità e ricatto. E la solidarietà fra i diversi siti ha già funzionato, fino al caso più eclatante all’ IKEA, lo scorso autunno. La piattaforma logistica di Piacenza è la più importante per IKEA, rifornendo i punti vendita dell’Europa mediterranea. Ben 600 dipendenti, fra diretti e appalti.
La lotta, avviata grazie al “contagio” delle precedenti, ormai numerose attorno Piacenza, è incentrata sulle solite questioni essenziali  - salari, orari, contratto, dignità  - e da subito fa danni pesanti su un simile snodo centrale dei flussi della multinazionale. Che tenta, sempre mandando avanti gli sgherri caporali delle coop, la soluzione repressiva: prima le manganellate ai cancelli poi ben 120 licenziamenti di rappresaglia, con l’invio di bus carichi di poveracci comprati come  crumiri. Ed ecco che il bel giocattolo della multinazionale di grido  - “Just in time” e comunicazione di massa, pseudo-partecipativa  - gli si ritorce contro. Grazie al sempre più consistente apporto militante solidale, vien fatto scoppiare lo “scandalo” sul portale web IKEA, organizzati presidi a molti magazzini, esteso l’intervento ad altri poli logistici. Il rapporto di forza cambia decisamente e un mese di lotta si trasforma in netta vittoria!

Citiamo da un loro volantino:

Sembra impossibile pensare che persone che non si sono mai conosciute in vita loro, che provengono da paesi diversi riescano a stringere un simile legame e a parlare la stessa lingua. Il tam-tam della dignità e della volontà riesce a superare ostacoli che prima sembravano invalicabili. La lingua dei lavoratori è la stessa in tutto il mondo, serve solo iniziare a comunicare, a condividere, ad impegnarsi, a lottare ed organizzarsi.
Questa è la cosa più straordinaria che ci è mai capitata.
Ci stringiamo a tutti voi, compagni vicini e lontani, agli operai della FIAT di Pomigliano, ai lavoratori del S. Raffaele di Milano, ai lavoratori della scuola pubblica. Ai tanti giovani studenti che ci hanno sostenuto in queste settimane (…)
Quello che stiamo ricevendo oggi, sarà contraccambiato da domani. Noi lavoratori dell’ IKEA saremo a fianco dei nostri fratelli di classe nella comune lotta per difendere le nostre condizioni di lavoro e per contrastare questo sistema, che si basa sullo sfruttamento di una parte minoritaria nei confronti delle masse sterminate della forza lavoro nel mondo.

Altri interventi, di lotte appena precedenti, testimoniano di bei livelli di maturità ed evoluzione, anche di prospettiva.
Intanto sull’efficacia del lavoro minuto e sistematico di mobilitazione tra fabbrica e quartiere, tessendo quella fiducia reciproca che, nella lotta, diventa poi vera comunità:

La sfiducia che il padrone ha costruito negli anni, noi l’abbiamo distrutta in pochi mesi di lotta (…) Non mi interessano solo i diritti che porto a casa, la cosa più importante è che adesso mi siedo a tavola con voi e condividiamo tutto (…)
Quando facciamo un blocco, scegliamo i giorni in cui l’impresa avrà più danno. Bisogna colpire quando c’è la possibilità di farlo e unire i lavoratori delle varie aziende. Se ora toccano gli operai della TNT, della GLS o IKEA di Piacenza, si muovono quelli di Bologna, di Modena, di Verona. Dobbiamo fare il coordinamento, il padrone non troverà un punto debole da colpire. Se vai con la bandiera a fare uno sciopero tradizionale, o sali sui tetti, puoi stare lì anche tutta la vita, non cambierà niente. Basta con lo sciopero della fame, o cose del genere, la fame la deve fare il padrone! A noi basta già la sofferenza che viviamo tutti i giorni sul lavoro. Questa non è solo la nostra lotta, è la lotta di tutti nella crisi, perché se vinciamo in un punto stiamo meglio collettivamente.

E spesso questi nuovi militanti operai riportano lo slancio indotto dalle rivolte arabe, talvolta anche tramite i fili concreti di partecipazione personale prima dell’emigrazione. Il paragone con quello spirito, coraggio, di rivolta è molto vivo e, dal punto di vista di classe generale, la realtà dei migranti può diventare un ponte molto concreto fra i vari movimenti in corso. Distruggere la concorrenza, creare unità!

E’ forse utile ricordare, tornando indietro, alcuni episodi significativi di contrasto, vincente, a questa strategia padronale di concorrenza mondializzata. Nel lavoro precedente citammo due lotte specifiche ed una mobilitazione generale, coinvolgenti più paesi europei: i marittimi irlandesi nel 2007, e gli operai edili nella costruzione di impianti industriali in Inghilterra nel 2009. Essi affrontarono la tendenza a far lavorare imprese e relativi operai provenienti da paesi periferici, alle loro condizioni salariali e normative di provenienza. Tendenza che in sede U.E. si cercò di legiferare, con la direttiva Bolkestein, rigettata a suo tempo “a furor di popolo”, cioè da forti mobilitazioni europee.
La risposta operaia anche nei due casi citati fu chiara. “ A lavoro uguale - salario uguale! “
Lo scontro fu duro e dovette superare le basse manovre, padronali e mediatiche, che alimentavano la presunta contrapposizione razzista-corporativa (ideale per loro). Ma la risposta fu forte ed efficace: come già la direttiva Bolkestein, anche questi tentativi furono gettati a mare (è il caso di dire), e ne uscì rafforzata una vera esperienza di unità operaia internazionale. Questo filo rosso si sta dipanando chiaramente sul fronte logistico che, peraltro, si allarga ogni mese. L’ultimo episodio da riportare per il 2012 sono gli scioperi alla  SDA/POSTE ITALIANE.
Queste ultime, che di servizio pubblico hanno solo più il nome, stanno operando secondo i più aggiornati criteri concorrenziali e capitalistici. Anche qui, dunque, sub-appalti, cooperative e supersfruttamento.
Fatto importante è che la lotta coinvolge centri di smistamento di rilievo, soprattutto a Roma e, di riflesso, a Bologna e Milano. E la vittoria è stata bella pulita: non solo sui punti rivendicativi immediati  - sostanziosi recuperi salariali, passaggi di livello, fine delle discriminazioni su orari e pagamenti, rientro di licenziati e trasferiti (per rappresaglia), diritti sindacali – ma anche sull’avvio di negoziati per altri punti, più sostanziosi ancora. Ed è chiaramente un salto in avanti questa estensione a strutture centrali del settore dei servizi, foriero di ulteriore massificazione.
E sono altri i nodi fatti emergere da queste lotte: esse impattano una trama di potere in cui risaltano vari commensali occulti, e cioè l’intreccio che dai grandi gruppi capitalistici discende a potentati periferici, economici, istituzionali ed extralegali. Cui partecipano (ex) sindacalisti che vestono sia il ruolo compiacente e complice, sia quello di dirigente aziendale nelle coop. E con il valido concorso di altre figure istituzionali, teoricamente preposte ai controlli (ispettori, ASL, assessorati, ecc.). Va tra l’altro ricordato che da sempre i sindacati confederali hanno le loro proprie coop, sul filo storico che ha portato alla degenerazione borghese di queste strutture originarie del movimento operaio, in cui appunto è istituzionale la commistione fra i due ruoli teoricamente contrapposti.
Questo fatto, che le lotte smascherino e attacchino il sistema di potere e sfruttamento  - in cui risalta l’unità organica stato-padroni -  è un risultato prezioso, frutto del percorso di autonomia di classe che vive in queste lotte.
Laddove si dà un percorso simile, si decantano i due campi: proletariato e borghesia. E per questo risultato va dato riconoscimento alla pratica di quei nuclei sindacali di base che agiscono nel senso di autentica autorganizzazione operaia. E giustamente in rottura con la tendenza prevalente, pure nel sindacalismo di base, alla burocratizzazione e alla subalternità alla sinistra borghese, istituzionale; ciò che finisce per frenare le reali istanze di classe.
Tutto questo alimenta, e si alimenta nello sviluppo della coscienza di classe, e di una coscienza che cresce affrontando i nodi dello sfruttamento e dell’oppressione. Assistiamo al ripresentarsi dell’organizzazione mobile sul territorio, moderno corteo interno alla fabbrica diffusa. Eco di percorsi storici gloriosi, come il vagabondaggio militante degli IWW  (Lavoratori Industriali del Mondo) negli USA. Dove, nell’esperienza di direzione collettiva, si esalta la solidarietà e l’unità internazionalista. Percorsi così si danno solo laddove si sta sviluppando consistenza di classe.
Ancora una citazione, da un testo del  SI-Cobas:

Eccoci quindi giunti al nocciolo delle questioni, allo spartiacque fra una concezione dialettica dello scontro di classe e la sua negazione più drammatica. Da una parte la realtà materiale di un sistema in crisi profonda che spinge milioni di operai a fare i conti in maniera sempre più diretta con lo sfruttamento capitalista (senza altra soluzione esauriente e permanente alla loro sete di giustizia sociale, economica e politica, al di fuori della rivoluzione sociale); dall’altra la sua negazione totale, insita nel “burocratismo di sinistra”, che inevitabilmente prende corpo se ci si separa da questa strada maestra e se si cerca di ricondurre la realtà concreta nell’alveo delle proprie convinzioni ideologiche e politiche astratte.
Questioni tutt’altro che estranee alla discussione fra operai intenti a difendere le proprie condizioni materiali immediate. Proprio perché la lotta di classe si è espressa senza compromessi, la questione di un partito della classe operaia che assuma una prospettiva rivoluzionaria concreta, che aborrisca qualsiasi approccio intellettualistico, soggettivista, in ultima istanza democratico-borghese, alla questione del potere, si sta ponendo in tutta la sua portata materiale e storica. Questo è il cuore della sfida.


USCIRE DALLA MORSA DELLE CONTRORIFORME

Chiusure e crolli occupazionali, da una parte, come effetto della profonda e perdurante crisi, provvedimenti governativi e accordi sindacali, dall’altra, stanno producendo effetti devastanti sul proletariato.
Sempre più grandi quote di ricchezza sociale vengono trasferiti verso profitti e rendite. Questo all’interno di una generale offensiva borghese che dura da decenni e che in questa fase intensifica i suoi attacchi su più fronti. I provvedimenti governativi del 2012 da questo punto di vista, sono significativi. In parte abbiamo trattato alcuni caratteri dell’offensiva borghese con “un contributo al dibattito nel movimento di classe” dell’ottobre 2011. Ora cerchiamo di approfondire questo aspetto alla luce di nuovi elementi e di un consolidarsi della tendenza in atto. Di seguito facciamo ricorso a dati di fonte borghese, che come tali, sono oggetto di manipolazione ed interpretazione. Una per tutte è quella sul calcolo della disoccupazione, per cui basta lavorare pochi periodi l’anno per essere considerato occupato. Un indubbio dato condiviso, confermato da diversi fattori, è il generale impoverimento delle famiglie operaie. Il crollo del potere d’acquisto di salari e pensioni, viene confermato dal calo dei consumi di beni di prima necessità. In 30 anni, una quota pari al 16 per cento del reddito nazionale destinato ai salari, si è portato verso i profitti. Fenomeno dovuto ai meccanismi interni al modo di produzione capitalista ed al cambiamento dei rapporti di forza che hanno portato la classe operaia ad arretrare. Ciò a cui contribuisce attivamente l’ulteriore integrazione delle forze politiche-sindacali riformiste al blocco dominante. Solo negli ultimi 15 anni il potere d’acquisto delle pensioni, è sceso del 30 per cento, a causa della progressiva erosione determinata dalla parziale rivalutazione rispetto all’inflazione. Inoltre, continua per tutto il 2014 il blocco salariale, iniziato nel 2010, per gli oltre 3 milioni di dipendenti pubblici e delle aziende a partecipazione statale. Tra le ultime trovate del governo, c’è il taglio del 75 per cento dei finanziamenti destinati ai servizi sociali e i fondi per il sostegno ai non autosufficienti. Una fascia di popolazione tra le più deboli, messa di fronte ad un vero e proprio baratro. L’impoverimento generalizzato dei lavoratori, è stato determinato dalla riduzione del prezzo della forza lavoro in termini assoluti (salario diretto, indiretto e differito). Impoverimento che va di pari passo con l’aumento della produttività, cioè di orari effettivi e dell’intensità del lavoro. Processo che è simile in tutti i paesi, e in Italia particolarmente accentuato. Nell’impoverimento salariale, si devono considerare le grosse quote di lavoro nero con salari da fame, come quelli in agricoltura o altre forme di lavoro non considerate come tali. Uno di questi, è la formazione in impresa (gli stage), che rappresenta un serbatoio di mano d’opera a costo zero, dove non c’è obbligo di formazione e rarissimi sono gli assunti. Impiegati in attività a bassa professionalità e stagionale. Oppure il lavoro accessorio retribuito con “buoni” (voucher). Nato per le attività occasionali in precisi settori, infine è stato generalizzato in tutti i settori di lavoro. Una tipica forma di lavoro nero legalizzato, dove è impossibile misurare il rapporto tra prestazione lavorativa e valore del voucher.. Questa tipologia di lavoro, è cresciuta negli ultimi 6 mesi del 2012, del 30 per cento, proprio per la sua generalizzazione in tutti i settori lavorativi. In questo modo, si è ridotto il ricorso al contratto stagionale in agricoltura, con relativa perdita dei requisiti per ottenere l’indennità di disoccupazione.
Sempre secondo i dati borghesi, le retribuzioni dei lavoratori con contratto a termine sono inferiori di circa il 30 per cento rispetto agli occupati a tempo indeterminato. Anche questa forma contrattuale è data in forte crescita (150.000 contratti in più nell’ultimo semestre 2012), ma la metà di questi, ha la durata inferiore a 30 giorni. In ultimo, la crescita dei contratti part-time imposti dall’azienda o dagli accordi che insieme alla diffusa e perdurante cassa integrazione riducono di molto i salari. In sostanza, a fronte di perdita di lavoro stabile, cresce, anche se in misura ridotta rispetto a quello perso, il lavoro a termine, precario e sottopagato. Insomma, si va consolidando una tendenza che disegna una nuova figura operaia la quale permette all’azienda di alzare la produttività, da estorcere attraverso lo sfruttamento. Per questo c’è bisogno di un lavoratore giovane e docile perché ricattabile, esposto a continui soprusi, ancor più privato di libertà di espressione e azione. E’ proprio questo il modello a cui punta ogni padrone.

Ed è questa la tendenza che si va affermando nella contrattazione, così come è stata delineata dalle ultime leggi varate in materia. L’ingiunzione ad avere piena disponibilità sui lavoratori, imposta dalla FIAT per tenere aperte le fabbriche, è molto significativa da questo punto di vista. Questa impostazione ha trovato il pronto sostegno sia delle forze politiche che delle centrali sindacali della collaborazione all’oppressione operaia. Infatti l’art. 8 del “decreto di ferragosto 2011”, traduce in legge il patto scellerato tra FIAT e sindacati collaborazionisti. I primi risultati di questo nuovo modello di fabbrica “sterilizzata” sono emersi dai dati dei primi mesi di produzione a Pomigliano, dove le assenze per malattia si sono azzerate e la produttività è cresciuta del 20 per cento. E un irrigidimento della disciplina di fabbrica che persino qualche capo definisce eccessiva. L’estensione di questo modello, che oltre al gruppo FIAT – con i suoi 86 mila dipendenti sulle 44 unità produttive in Italia – viene assunta dai sindacati collaborativi e comincia a trovare applicazione nel rinnovo dei contratti nazionali di categoria. Il suo caposaldo è la crescita della produttività, da perseguire attraverso l’aumento dell’intensità del lavoro e la riduzione del suo costo. Tradotto in altri termini, riscrive il contratto azienda per azienda, per adeguarlo alle specifiche esigenze padronali. Lo spostamento del baricentro contrattuale-negoziale verso il piano aziendale e territoriale, corrisponde alla strategia padronale di sempre: rompere unità, alimentare divisione, concorrenza, corporativizzazione.
Va sottolineato che la svolta in corso significa la rovina per la gran parte dei salariati che, essendo occupati nelle medie, piccole e piccolissime imprese, perdono quel collante minimo, quella piattaforma unitaria che è comunque il contratto nazionale di categoria, per ritrovarsi ancor più deboli e ricattabili di fronte a qualsiasi pretesa padronale. E’ quello che già si vede, appunto nei settori più frammentati, come il commercio e servizi, dove si moltiplicano le disdette di accordi precedenti e, in testa grandi gruppi come CARREFOUR, si impongono pesanti regressioni. Sul fronte “riduzione del costo del lavoro” viene stabilito un nuovo criterio di adeguamento salariale per i rinnovi dei contratti nazionali, l’ IPCA (Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzato) che esclude dal calcolo per la sua misurazione i prezzi dei beni energetici. Esso viene fissato come tetto massimo, nel senso che il suo recupero pur parziale dell’inflazione può essere ridotto, o rimandato il suo pagamento; perché recuperi e pagamenti dovranno, secondo le imprese, <>. Secondo l’ OCSE << in Italia c’è bisogno di maggiore flessibilità>>. E visto che sul piano della legiferazione esistono delle contraddizioni tra le diverse frazioni della borghesia, e la necessità di frenare la crisi sociale e politica, viene escogitato questo “stupendo” strumento della deroga alle leggi, da attuare azienda per azienda. Sono 63.196 le deroghe di legge che già vanno a favorire settori e classi sociali privilegiati. Come sono circa 50 miliardi di euro gli aiuti statali annui alle imprese. Quasi l’equivalente dei 60 miliardi recuperati con la rapina denominata riforma delle pensioni.

Matura tra la classe la consapevolezza di essere sotto attacco, una vera e propria guerra di classe da parte borghese, come noi da tempo la definiamo. Dobbiamo cogliere le modalità con cui essa viene condotta. Ma soprattutto il modo in cui la nostra classe reagisce e si difende. Difesa sul terreno immediato, con qualche accenno di ricerca e pratica di forme organizzative. I vari passaggi descritti sopra, sono oggetto di resistenza e contraddizioni all’interno degli stessi sindacati: dimissioni del segretario dei chimici CGIL a causa di conflitti interni; abbandono della sala da parte dei delegati a fronte del rifiuto dei segretari di  CGIL CISL UIL  ad accogliere le proposte arrivate dalle fabbriche, nella costruzione della piattaforma per il rinnovo del contratto nazionale della gomma-plastica. Contraddizioni e tensioni si sono manifestate in due tornanti di rilievo. In occasione della disdetta del piano “Fabbrica Italia” da parte di Marchionne, che ha svergognato un collaborazionismo sindacale incapace di garantire alcunchè agli operai in cambio della sottomissione ai peggiori di Ktat FIAT. Quanto meno un serio colpo alla credibilità di queste burocrazie, che però non possono che continuare nel loro spregevole lavoro. Così si arriva al secondo tornante, a dicembre, con il contratto separato dei metalmeccanici, non sottoscritto dalla FIOM. Aumento salariale di 130 euro al 5° livello (cioè parte degli impiegati e operai super-specializzati), mentre la gran massa degli operai si accontenterà di 100/120 euro lordi. Per di più scaglionati su tre anni, fino al gennaio 2015, e con l’introduzione delle famose nuove norme: possibili deroghe temporali all’applicazione e integrazione di parte degli aumenti nella contrattazione aziendale. Già è una miseria, e rischia pure di ridursi strada facendo …! Abolito il passaggio automatico fra il 1° e 2° livello (i più bassi), cioè si comprime la permanenza ai livelli verso il basso. E ne vengono istituiti due nuovi, il 3° super e il 4° super:: “divide et impera!”. Non parliamo poi di flessibilità degli orari, dove si allargano le possibilità di rimodulazione: ferie, permessi retribuiti, ex-festività  potranno essere utilizzate complementariamente alla CIG.
Imposto un meccanismo di rimborso degressivo sui primi 5 giorni di assenza da malattia e, in tappe successive, il loro non pagamento. E poi l’assistenza sanitaria viene indirizzata verso la privatizzazione e le soluzioni individuali, tramite l’istituzione del Fondo Sanitario Integrativo. Insomma, un osceno contratto di conquiste padronali, sul solco del precedente firmato dai chimici e dell’accordo sulla competitività. Tant’è che sono partiti subito alcuni scioperi di protesta, per lo più organizzati dalla FIOM. Tensioni che hanno trovato terreno più fertile in particolare nell’area di Pomigliano, e del napoletano in generale, dove da tempo vi sono conflitti aperti in grosse fabbriche: FIAT e indotto, AVIO, ALENIA, FINCANTIERI.

A luglio vi fu una giornata di convergenza di questi, con 30 mila manifestanti e contestazioni ai burocrati. Ora, a dicembre, sono state alcune fabbriche dell’indotto, la ex ERGOM ed altre, al culmine di mesi di mobilitazione contro i licenziamenti, a dare un impulso significativo. La giornata del 10 ha visto un blocco della FIAT “dall’esterno”, talmente partecipato dagli operai ex ERGOM da trasformare l’iniziale blocco merci in picchetti di sciopero completo, coinvolgendo ovviamente anche operai FIAT.
Un’altra espressione di quella tendenza (di cui abbiamo già parlato) alla lotta su base territoriale, dove “risolvere” in parte le difficoltà persistenti all’interno delle singole fabbriche. Difficoltà ben rappresentate, purtroppo, nel caso di Pomigliano dalla degradazione dello sfruttamento e dall’incapacità a far rientrare i cassaintegrati. Si può ancora citare lo sciopero organizzato dalla FIOM all’ IVECO di Brescia, in febbraio; appunto dall’esterno. Con buona riuscita – stando alle sue cifre, il 60 per cento di scioperanti su 2.800 addetti – e comunque con visibile massiccia partecipazione all’assemblea sui piazzali esterni.
La conflittualità aziendale nel 2012 è data in crescita del 9 per cento. Le proteste sociali, in senso ampio, anche esse in crescita, comprese le iniziative in piazza non autorizzate (dati CENSIS ). Se a questo si associa il fatto che si sgretola sempre più la fiducia nei soggetti della mediazione sociale, per la loro evidente subalternità ai gruppi di potere dominanti, gli spazi per il conflitto sono cresciuti ed in prospettiva cresce il potenziale sviluppo di lotte sempre più radicali ed autonome.

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